Difendere il Made in Italy dall’attacco del mercato cinese

Basta con le parole, passiamo ai fatti

Il pericolo Cina non è all’orizzonte ma una realtà presente da anni. Uniontessile di Confapi, già nel 2003 aveva annunciato il rischio e le problematiche che il mercato Cinese avrebbe arrecato al settore manifatturiero. Oggi che il tessile sia in crisi, come dichiarato dal presidente degli industriali varesini qualche giorno fa, non è per nulla una novità.

Le aziende più penalizzate dalla crisi Cinese erano e restano le piccole imprese, le quali hanno subito nel corso degli anni un susseguirsi di problematiche a catena. Ma purtroppo c’è di peggio. Chi pensa che il rischio Cina sia l’unico si sbaglia.

Per Franco Colombo, presidente di Confapi Varese, il passo più importante da compiere è “dare trasparenza al consumatore di cosa sta comprando”. Ovvero garantire che l’etichetta made in Italy compaia esclusivamente su prodotti fabbricati in Italia, in modo da tutelare maggiormente gli artigiani italiani. Già, perché è risaputo che i grandi gruppi – in base alla legislazione vigente – hanno possibilità di etichettare come made in Italy un capo che è stato realizzato in gran parte all’estero. Una pratica assai diffusa che garantisce un largo margine di profitto – è evidente il differente costo di produzione tra Italia oppure Cina, Marocco o Tunisia – ma che ha messo all’angolo il nostro manifatturiero che non ha più le risorse né per innovare, né per cercare di internazionalizzarsi.

E’ doveroso ripresentare per l’ennesima volta la questione del “made in” – già molte volte svalutato, come purtroppo si fece con il progressivo smantellamento dell’Accordo Multifide che, a regime dopo 10 anni il primo gennaio 2005, provocò una scossa nel tessile – abbigliamento.

Sarebbe opportuno, sottolinea Angelo Saporiti, presidente del Consorzio Cotone Moda, definire con precisione un mercato equo, ridisegnando la “piramide” del sistema, senza prendere per il naso i consumatori con il “finto” made in Italy, sarebbe un bene che anche i brand con una precisa identità e notorietà internazionale si sentano chiamati in causa, o rischiano di finire anch’essi stritolati da una possibile invasione cinese a prezzi stracciati, magari tramite formule differenti di “imitazione” di loghi e prodotti.

“Siamo in una situazione che premia quelle aziende che non hanno alcun interesse affinché vi sia un concetto di trasparenza – dichiara Matteo Cavelli, Presidente Tessili Vari – è necessaria la tracciabilità del prodotto con indicazione del luogo nel quale vengono effettuate le operazioni di tessitura , nobilitazione e confezionamento nonché la certificazione di stato di buona salute del prodotto progetto che stiamo portando avanti con l’associazione tessile e salute in collaborazione con il Ministero della sanità” .

Da qui la proposta di Uniontessile Confapi alla creazione di un codice etico di autoregolamentazione per tutelare il nostro manifatturiero, una normativa di tipo doganale che, di fatto, consente di vendere il “made in Italy” non prodotto in Italia, con il costo del capo “made in Italy”. E a guadagnarci non sono certo le Pmi. Notiamo che alcune associazioni di categoria, non sono molto sensibili alla proposta del codice etico di autoregolamentazione, non è più tempo delle chiacchiere, bisogna passare ai fatti.

20160211_111153